Il prof. Dino Simone sull’imminente ricorrenza: “Si avvicina il 10 febbraio, “Giorno del Ricordo”, istituito con la Legge 30 marzo 2004, n. 92, in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, data importantissima per noi profughi. Quest’anno intendo soffermarmi sull’esodo da Pola di cui sono stato un testimone diretto, anche se nel marzo del ’47 avevo poco più di 6 anni.
di Dionisio (Dino) Simone


“L’esodo giuliano-dalmata [che si snodò tra il 1943 e il 1956] portò allo svuotamento, pressoché totale, della componente italiana della regione [dell’Alto Adriatico orientale], territorio di confine, segnato da un variegato paesaggio linguistico, identitario e culturale, che fu attraversato, nel corso del Novecento, da una storia tumultuosa e traumatica, sulle cui linee si intersecano nazionalismi, fascismo, nazismo e comunismo titino, che portarono a stravolgimenti politici e mutamenti confinari, trasformandolo in un luogo di tensioni, violenze e spostamenti di popolazione (E. Miletto, Scritture di frontiera. L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura di confine https://www.novecento.org/).
Fughe individuali da tutti i territori occupati dalle truppe comuniste jugoslave, su barconi o altri mezzi di fortuna, si erano già verificate alla fine del ’43, ma le partenze in massa da Pola avvennero in poco più di un mese, dai primi di febbraio al 20 marzo del ‘47, quando la motonave Toscana, messa a disposizione dal Governo italiano, insieme con altre unità navali minori, effettuò il suo ultimo viaggio da Pola ad Ancona.
I polesani avevano aspettato a lungo prima di partire, convinti che il trattato di pace avrebbe assegnato la città all’Italia, ma non fu così e allora bisognò fare tutto in fretta, in un inverno freddo, sotto la pioggia e la neve.
L’esodo fu una scelta di vita e di libertà. Il terrore, insieme con l’incertezza per il futuro, per effetto della politica nazionalcomunista di Tito, costrinse le persone ad andar via da Pola e dall’Istria, da una parte della Venezia Giulia e dalla Dalmazia, e, con la “pulizia etnica”, in favore della slavizzazione di queste terre, venne cancellata quasi ogni traccia della presenza italiana.


Dopo l’attentato di Vergarolla, località balneare nel porto di Pola, certamente opera dell’OZNA, la polizia segreta di Tito, che provocò oltre sessanta morti e centinaia di feriti, la città si svuotò completamente: circa 28.000 dei suoi abitanti, che, temendo per la propria vita (quasi tutti avevano sentito una notte i colpi di quelli che bussavano alla porta per prendere qualcuno della famiglia e infoibarlo), non accettando come noi il regime comunista e sentendosi italiani, se ne andarono via, in giro per il mondo, verso l’ignoto, mentre i “rimasti” furono meno di 4000.
L’imbarco degli esuli sul Toscana e il momento drammatico della partenza sono ben messi in evidenza nei versi finali della poesia Esodo, di Anonimo (l’originale è in dialetto polesano):
‹‹Come sardine stipati sul ponte (della motonave “Toscana”),
con gli occhi gonfi di lacrime furtive
voltandosi indietro il cuore si tormenta,
la riva e l’Arena più piccole diventano.
Passata la diga finisce l’incanto,
di tutto quel mondo non resta che il pianto››.
Pola divenne divenne la città simbolo dell’esodo. Del giorno dell’imbarco ricordo confusamente solo un particolare: la sera eravamo sul ponte del Toscana, buio tutto intorno, solo qualche luce in lontananza, e ho avuto paura. Ho provato la stessa sensazione tanti anni dopo, tornando di notte in aereo da Filadelfia e guardando dal finestrino: nell’oscurità totale si vedeva solo una striscia di chiarore all’orizzonte.
La rilettura del bellissimo libro BORA. Istria, il vento dell’esilio, di Anna Maria Mori e Nelida Milani, (Marsilio, 2021 [prima edizione 1998]) è stata anche per me, una grande lezione di storia, una grande lezione di sofferente umanità e soprattutto mi ha permesso di soffermarmi sul rapporto esuli-rimasti.
Bora ha la caratteristica di un romanzo epistolare: Anna Maria Mori profuga (“andata”) e Nelida Milani “rimasta” si scambiano delle lettere in cui, a distanza di anni, ognuna racconta le proprie esperienze dopo l’esodo da Pola.
“E se provassimo, con le lettere, come si usava una volta, a pensare insieme, a ripercorrerla insieme, tu di qua, questa nostra storia dolorosa e misteriosa, uguale e diversa: due vite parallele, e parallelamente sradicate, la mia dalla casa, dalla terra, dalla mia gente, la tua dalla lingua che ti è stata insegnata alla nascita, dai nomi e dai volti di quelli che costituivano il panorama e l’orizzonte della tua infanzia? Proviamo, vuoi?” (op. cit. p. 27)
Ecco la testimonianza, sulla partenza da Pola, di Nelida Milani, vista dall’angolazione di chi è rimasto (op. cit. pp. 152 e segg.), che ci fa comprendere la totalità dell’esodo:
«Ricordo il suono dei martelli che battevano sui chiodi , il camion che trasportava la camera da letto di zia Regina al molo Carbon, avanzando tra tutti gli imballaggi che si infradiciavano nella neve e nella pioggia. La grande nave (il Toscana) partiva due volte al mese, dai camini il fumo saliva in cielo come incenso e insinuava negli animi il tormento sottile dell’incertezza, e l’ombra dell’inquietudine […].
(Partirono) le famiglie bene, molti professionisti, il farmacista, l’ufficiale che ha sposato la cecoslovacca, il dentista che ha sposato l’ungherese,il cantate che ha sposato la slovena, il professore d’inglese che ha sposato l’italiana,la vedova di un ebreo, la bella Vanda che riceveva i soldati americani […].Partì il mondo dei mille mestieri, l’operaio e l’artigiano, il contadino inurbato in cerca di fortuna e il manovale . .. l’ortolano … il carraio… l’impagliatore , il bottaio, il fornaio, il muratore…; partirono gli operai di fabbrica…. I falegnami e i calzolai, lo stagnino, la rammendatrice, il pastaio, il barbiere […].
Partirono i padri dei ragazzi partigiani e poi anche gli ex partigiani… sentivano di non avere alcuna possibilità di condurre una vita piena, realmente umana (in quel mondo).
Per noi che restavamo, era l’inizio di una nuova era. Dopo, infatti, le cose non sarebbero mai più state uguali né facili».
Le parole di Nelida Milani consentono anche di riflettere sulla trasversalità di un fenomeno, che coinvolse quasi l’intera cittadinanza, e sul senso di smarrimento, sul trauma che l’esodo rappresentò per quanti decisero di restare, i cosiddetti rimasti, trovatisi a vivere di “malinconie e ricordi” in una città i cui quartieri avevano cessato di pulsare, negli spazi lasciati vuoti da chi abbandonava case, amicizie, legami.
Come precisa Ulderico Bernardi in Istria d’amore. L’Istria, magico frammento d’Europa (Editrice Santi Quaranta, 2012)), i “rimasti”, che si trovarono a vivere spaesati nella loro terra svuotata di volti, di memorie, di riferimenti consueti e i profughi, che si dispersero per il mondo (dall’Europa al Canada, all’Australia…), sono due forme diverse per un unico dolore (p. 135).
In “Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria, di Silvia Dai Pra’ (Laterza, 2019), l’autrice, tornata in Istria alla ricerca di notizie del bisnonno infoibato, racconta di essersi trovata dopo tanti anni ancora di fronte ad un muro di gomma: nessuno sa, nessuno ricorda, tutti vogliono dimenticare, e, per giustificare loro parenti o amici infoibatori, ripetono “ma la violenza e gli eccidi ci sono stati da una parte e dall’altra”. “Senza salutare nessuno” esprime il pensiero della nonna della scrittrice: tutti sapevano che fine avesse fatto e in che foiba fosse stato gettato suo padre, una persona perbene, mite, colpevole solo di essere un italiano benestante (aveva un negozio di alimentari), e chi ne fosse responsabile. Ma «‘salvare la memoria’ non è più possibile perché sono tutti spariti, e se è possibile non serve a niente». Ecco l’amara conclusione, al termine della sua ricerca, della scrittrice che parla anche della casa del bisnonno e della tomba di famiglia ora diventate proprietà di altri: lontani parenti o conoscenti.
All’esodo da Pola e al rapporto profughi-rimasti mi riportano con la mente i versi della prima bucolica di Virgilio, che esprimono la tristezza del pastore Melibeo, costretto dopo una guerra, come è capitato anche a noi, ad allontanarsi dai luoghi che amava. Melibeo è uno dei contadini che dovettero cedere le loro terre ai veterani di Ottaviano e Antonio (nel 42 a.C.), mentre Titiro rappresenta il pastore fortunato, che, grazie all’intervento di un deus (secondo alcuni lo stesso Ottaviano), conserva il possesso del suo podere:
Nos patriae finis et dulcia linquimus arva,
nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas. (Buc. I, 3-5)
Noi la terra dei padri lasciamo e i cari campi,
noi fuggiamo dalla patria; tu, Titiro, placido all’ombra
insegni ai boschi a riecheggiare il nome della bella Amarillide.
Come Titiro, che, tranquillamente sdraiato sotto un ampio faggio, osserva Melibeo partire per un esilio senza possibilità di ritorno, molti dei cosiddetti “rimasti” restarono a Pola e in Istria, dopo l’esodo di massa del ’47, perché erano, se non tutti, quasi tutti comunisti (anche se con motivazioni diverse, come precisa Anna Maria Mori, in Nata in Istria) e, al momento dell’opzione, scelsero la cittadinanza croata, accettando il regime di Tito; altri, indipendentemente dall’età, non vollero lasciare la terra e la casa in cui erano nati e cresciuti, perchè avevano paura dell’ignoto; numerosi infine sono quelli a cui le autorità jugoslave rifiutarono la possibilità di partire, specialmente nell’Istria interna e nelle isole (Cherso e Lussino). Come quelli che dovettero aspettare diversi anni, prima che fosse accolta la loro richiesta di poter lasciare l’Istria, tutti patirono fame, miseria, privazioni di ogni genere, disprezzo perché italiani, e subirono intimidazioni e minacce, come hanno raccontato parecchi di loro nei loro diari.
Anche il finale del romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga mi ha fatto pensare a “profughi” e “rimasti”: Alessi e ’Ntoni sono posti di fronte per suggerire un’opposizione di destini, l’uno resta nella casa-rifugio e nel paese-nido, l’altro, strappato da questo tempo e da questo spazio mitici, appare ormai condannato allo sradicamento dell’esilio (Luperini).
In precedenza, tra le associazioni dei profughi e i “rimasti”, non c’era dialogo, anzi c’era disprezzo. I primi erano definiti “fascisti”, i secondi “comunisti” e complici degli “infoibatori”.
Nell’ultimo ventennio tante cose sono cambiate (anche se restano diffidenze e rancori), i rapporti sono migliorati e si sono gradualmente intensificati, e ora, finalmente, esuli (“andati”) e “rimasti” collaborano per la tutela della minoranza linguistica italiana in Istria. Tuttavia quello di esuli e rimasti è un problema ancora aperto, anche dopo l’entrata della Slovenia e della Croazia nella Comunità Europea, mentre ormai le divisioni non avrebbero più motivo di esistere, perché siamo tutti riuniti nella comune casa europea.
Ho letto di recente che “abbandonare un bene” significa rinunciare a ogni diritto su di esso. È quello che abbiamo fatto noi: abbiamo “abbandonato” la nostra terra, l’Istria, e i nostri beni (la casa, la campagna), che, come quelli di tutti gli altri, sono stati nazionalizzati dalla Jugoslavia.
‹‹Abandonar›› è il vocabolo che in tutti questi anni ho sentito pronunciare più spesso in famiglia: può essere considerato il Leitmotiv, la parola chiave del nostro lessico. In questi settant’anni dallo Stato italiano abbiamo ricevuto solo un modesto risarcimento. Siamo stati noi, italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, che, con la perdita dei nostri beni, abbiamo pagato per tutti i danni di guerra che l’Italia aveva procurato alla Jugoslavia.
Nel corso di oltre dieci anni (fino al 1956) 350.000 istriani, giuliani e dalmati, piccoli e grandi, si trasformarono in esuli.
Siccome era previsto dagli accordi internazionali che tutti i cittadini italiani, anche quelli rimasti nelle zone dell’Istria passate sotto la sovranità jugoslava, potessero esercitare il diritto di opzione per trasferirsi in Italia prima della ratifica del trattato di pace, quasi tutti fecero richiesta di espatrio. Alla presentazione della domanda, ogni optante perdeva automaticamente la carta annonaria e il posto di lavoro. Chi possedeva dei beni rinunciava a ogni diritto di proprietà. A tutti era consentito di portare con sé solo il bagaglio a mano, il resto veniva incamerato dagli slavi.
A Pola, amministrata dagli Alleati, non c’erano le limitazioni imposte dagli jugoslavi nelle aree di loro competenza, perciò i polesani cercarono di portare con sé tutte le loro cose. Molti si portarono via anche i loro morti e quasi tutti un pezzetto di pietra dell’Arena.
Arrivati in Italia, però, i profughi, che erano bocche da sfamare, persone senza lavoro e prive di tutto, per motivi opposti non ebbero una buona accoglienza, né da parte della sinistra, che li considerava tutti “fascisti”, né da parte dalla destra, che li giudicava dei traditori, perché avevano lasciato la loro terra agli jugoslavi, né dallo stesso governo De Gasperi, che, dopo aver cercato di trattenerli in Istria e di impedire le partenze, poiché li riteneva dei pericolosi nazionalisti, decise di disperdere gli esuli in tutte le regioni italiane, destinandoli in un centinaio di centri di raccolta (CRP) molto distanti tra loro.
I campi profughi, che di fatto isolavano i “diversi”, erano sistemazioni provvisorie in caserme in disuso, in capannoni fatiscenti, in ex campi di prigionia, come per esempio quello di Altamura, a 5 chilometri dal centro abitato, circondato dal filo spinato e con un posto fisso dei carabinieri e quello di Bari, sito in via Napoli.
Ecco parte della testimonianza di Sergio Servi, istriano di Parenzo, di come si viveva nelle baracche del campo profughi di via Napoli: “Le baracche erano suddivise in tanti appartamenti, grandi a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, da pannelli di compensato che col tempo si deformavano, per cui spesso si incollavano alle pareti fogli di giornale per chiudere le fessure e garantirsi un po’ di privacy.
Durante le intemperie pioveva nelle baracche e si dormiva con le pentole che raccoglievano l’acqua che gocciolava dal tetto.
La luce elettrica era disponibile solo nelle ore diurne, a seconda della stagione ed era proibito usare fornelli elettrici e ferri da stiro, perchè la linea elettrica non sopportava troppo carico”.
Poiché la provincia di Bari e, in particolare, il comune di Altamura offrivano scarse possibilità di inserimento nel mondo del lavoro, un numero cospicuo di profughi, dopo una sosta nei campi pugliesi, si trasferirono al nord (Piemonte, Lombardia, Veneto) mentre altri scelsero la migrazione transoceanica (Canada, Stati Uniti, Argentina, Brasile).
Noi non abbiamo vissuto questa esperienza dei CRP, ma trovammo ospitalità presso i nostri parenti di Polignano e addirittura papà riprese servizio nell’Arsenale militare di Taranto non molto tempo dopo l’arrivo in Puglia.
Inoltre, andando via da Pola, governata dagli Alleati, noi abbiamo potuto portare con noi tutte le nostre cose, senza limitazioni: persino il carro, il muss (l’asino) e la capra (che erano con noi nella stalla durante un bombardamento), le biciclette di papà e mamma, gli infissi di porte e finestre e tutte le altre masserizie, tra cui armeroni (armadi), credenze, careghe (sedie), tavoli, mentre quelle di molti altri infelici, dal dopoguerra giacciono in gran parte ancora accatastate nel magazzino n. 18 del Porto Vecchio di Trieste, dove furono depositate al momento dell’esodo e mai più ritirate (e ora diventato un museo dell’esodo).
È ambientato proprio qui il musical di Simone Cristicchi, Magazzino 18, rappresentato la prima volta nell’ottobre del 2013, che ripercorre l’odissea degli italiani dell’ Istria e della Dalmazia, al tempo dell’esodo, con grande equilibrio ed obiettività, anche se non mancano sull’opera teatrale giudizi diametralmente opposti. Nello spettacolo si immagina che a inventariare i beni (masserizie e oggetti di vario genere), che gli esuli emigrati, prima di partire, lasciarono in custodia nel porto, convinti di tornare a riprenderli, sia stato mandato l’archivista romano Persichetti, che, come ancora oggi la maggior parte degli italiani, ignora del tutto le tragiche vicende di queste terre, per tanto tempo volutamente dimenticate, a cui quegli oggetti sono legati.
Gli anni del dopoguerra, difficili per tutti, lo sono stati anche per noi, nonostante l’affetto e la disponibilità dei nostri parenti, anni di privazioni, di stenti e di sacrifici di ogni genere.
In Italia i profughi furono accolti con diffidenza e pregiudizio. La stampa di sinistra li considerava tutti, o quasi, fascisti e nazionalisti. I governi li dimenticarono nei campi profughi sporchi e privi delle più elementari necessità igienico-sanitarie. Ma non erano tutti fascisti, erano italiani che non accettavano il regime comunista di Tito. Si trattava di una grande comunità che pagava di persona con la perdita delle proprietà e della propria identità.
Le foibe e l’esodo rappresentano una storia dimenticata, negata, volutamente rimossa per decenni. L’ “assordante silenzio” (di cui parla Arrigo Petacco) che ha gravato su questi fatti è durato sino alla caduta del muro di Berlino (1989) per motivi di politica internazionale e di politica interna.
Durante la cosiddetta Guerra Fredda, subito dopo la fine del conflitto mondiale, il Maresciallo Tito si staccò da Stalin, creando una barriera da contrapporre al bolscevismo sovietico in cambio del silenzio sui suoi crimini di guerra. Una situazione politica strettamente legata alle nostre vicende: il Partito comunista italiano aveva appoggiato la linea politica di Tito durante la guerra di liberazione e in Istria le brigate partigiane “Garibaldi” avevano ricevuto l’ordine di mettersi alle dipendenze del IX Korpus sloveno. Inoltre molti italiani consideravano l’Istria come il frutto delle mire espansionistiche della Prima guerra mondiale o come conquista del fascismo.
Solo dopo la morte di Tito e la caduta del muro di Berlino la situazione internazionale è profondamente cambiata e in Italia, dopo la scomparsa di Togliatti e di altri protagonisti della Resistenza, il Partito comunista ha perso parte della sua influenza sulla politica estera italiana.
(Da: Come un gabbiano. L’esodo da Pola settant’anni dopo, Edizioni dal Sud, pp. 15-18 e 45-48, passim, con aggiunte e modifiche).