Nel nuovo articolo del prof. Simone, continua la rassegna mitologica e di lettere classiche offerta dallo scrigno prezioso contenuto nelle tele del grande edificio storico.
di Dino Simone
Palazzo Roberti, Il Concilio degli Dei
LA DONNA IN EURIPIDE E IN ARISTOFANE
(Medea e Ippolito – Tesmoforiazuse)
Palazzo Roberti, con tutte le sue decorazioni pittoriche, offre molteplici spunti per approfondimenti artistico-letterari.
C’è un filo sottile che collega tutti i personaggi raffigurati nel Concilio degli Dei e in altre tele lì presenti: vi è sintetizzata tutta la mitologia e la letteratura classica, davvero uno scrigno prezioso, da conoscere in maniera approfondita e valorizzare.
Anche questa volta prenderò le mosse dalla grande tela del soffitto del salone principale e nella seconda parte di questa ricerca focalizzerò ancora l’attenzione su Demetra-Core e su Bacco/Dioniso.


Prima di entrare in argomento e analizzare la concezione della donna in Euripide e le critiche a lui rivolte da Aristofane, sarà opportuno fare una premessa ed esaminare quali erano le condizioni della donna in Grecia, e in particolare ad Atene, seguendo qua e là Eva Cantarella, L’ambiguo malanno [il titolo deriva da un verso dell’Ippolito di Euripide].
Ad Atene, nel gruppo familiare le femmine erano un investimento costoso e non remunerativo, anche e soprattutto per le spese della dote. Il marito veniva scelto dal padre, all’interno del gruppo parentale. Le donne trascorrevano il tempo che le separava dal matrimonio senza ricevere nessuna forma di istruzione, né a scuola né a casa, dove trascorrevano il tempo ad apprendere i lavori femminili.


Rinchiuse nella parte interna della casa (gynaikonìtis, gineceo), nella quale gli uomini non avevano accesso, esse non avevano nessuna possibilità di incontrare persone diverse dai familiari. Al simposio, momento importante della giornata dell’uomo greco, il “bere insieme” che seguiva al banchetto, le donne di famiglia, mogli e figlie, non potevano partecipare, erano presenti invece le etère e le flautiste. Anche agli spettacoli teatrali non erano ammesse le donne. Ovviamente esse erano emarginate ed escluse da ogni partecipazione alla vita politica.
Le donne libere avevano solo la funzione di procreare prole legittima e anche dopo il matrimonio continuavano la loro vita da “recluse”, nell’oikos, nella casa del marito, che amministravano, esercitando la loro autorità sulla servitù, ma non educando i figli (come invece facevano le donne romane) che venivano affidati al pedagogo.
Se non avevano una vita pubblica, le ateniesi prendevano però parte ad alcune cerimonie religiose ed alle esequie di persone di famiglia, non godevano di diritti propri ed erano considerate inferiori all’uomo e subordinate prima del matrimonio al padre e successivamente al marito.
Paradossalmente, le donne delle classi più umili, andando a lavorare nei campi o al mercato, dove vendevano pane e verdure (per scherno dai comici Euripide era considerato il figlio dell’erbivendola), godevano di maggiore libertà di movimento.
Qual è la posizione di Euripide nei confronti delle donne? È difficile farsi un’idea precisa perché nelle sue tragedie sono presenti affermazioni contrastanti, basti pensare ai monologhi di Medea e di Fedra, in difesa delle donne, e alla violenta arringa contro le donne di Ippolito.


Medea è una straniera, sola e senza patria. Umiliata e tradita dal marito Giasone, è pronta a vendicarsi. Ecco che cosa dice alle donne del coro:
“Donne corinzie, […] il fatto inaspettato che mi è piombato addosso mi ha distrutta… Ho perduto la gioia di vivere e non desidero che morire. Colui che era tutto per me, e lo sa, si è rivelato il peggiore degli uomini. Di tutti gli esseri dotati di anima e di intelletto, noi donne siamo la razza più disgraziata (gynaîkès esmen athliōtaton phytón). Prima di tutto, dobbiamo comprarci un marito a suon di denaro, che sarà il nostro padrone: e questo è l’aspetto più doloroso del male. Per di più non è certo se il marito che si prende è buono o cattivo. Il divorzio non è onorevole per le donne, che non possono ripudiare il marito. D’altra parte, una donna che viene in contatto con nuove abitudini e nuove leggi, deve essere una indovina, dal momento che in casa sua non impara come andare d’accordo col suo compagno. E se riusciamo coi nostri sforzi a far sì che il marito viva con noi, sopportando il giogo senza fatica, la nostra vita è invidiabile; altrimenti non resta che la morte. Un uomo quando si stanca della famiglia, va fuori a divertirsi, ma noi siamo costrette a guardare ad una sola persona. Dicono che noi viviamo sicure in casa mentre loro combattono. Stupidi! Vorrei combattere mille battaglie prima di partorire una volta sola (màllon ē tekeîn àpax)! Ma per voi il discorso è diverso: voi avete una patria, una casa, una vita serena e degli amici. Io invece sola, senza patria, oltraggiata dal marito che mi ha rapita da un’altra terra, sono senza padre né fratelli né parenti che mi sollevino da questa sventura. […] Una donna è timorosa in tutto, debole di fronte alla forza e alla vista del ferro. Ma quando si vede tradita nell’amore (letteralmente “il letto”), la sua ferocia non conosce limiti” (Euripide, Medea, vv. 225-266, trad. di Olimpio Musso).
Le ultime parole di Medea anticipano la sua vendetta, che sarà spietata, e giustificano il terribile gesto, l’uccisione dei figli avuti da Giasone, che si appresta a compiere.
Analizziamo alcune affermazioni di Medea che, ad un certo punto, parla a nome di tutte le donne:
- Dobbiamo comprarci un marito: è un riferimento all’istituto della dote;
- sarà nostro padrone: la donna non ha personalità giuridica, non è responsabile della sua condotta, anche nel caso di adulterio, quindi è sempre sotto la tutela di un tutor;
- un uomo va fuori a divertirsi: spesso il marito intratteneva altre relazioni femminili (ma anche maschili).
A conferma di ciò che dice Medea, l’oratore Demostene precisava:
“Abbiamo le etère (hetàirai) per il piacere, le concubine (pallakài) per prendersi cura di noi nelle necessità quotidiane [cioè per avere rapporti sessuali stabili] e infine le mogli (gynàikes) per generarci dei figli legittimi [a cui trasmettere l’oikos] e per essere fedeli custodi delle nostre famiglie” (Contro Neera, 122).
Le etère (hetàira vuol dire compagna) erano diverse dalle pornài, prostitute da strada o da bordello. Nell’antica società greca esse costituivano in pratica l’unica categoria femminile che poteva realmente dirsi indipendente, a volte riuscendo anche a esercitare un’influenza notevole sui personaggi pubblici importanti tra quelli frequentati, come ad es. Aspasia su Pericle (anche se, per alcuni studiosi, non era un’etera ma la sua concubina). Erano famose per le loro spiccate capacità artistiche, dalla danza alla musica, così come per le loro doti sia fisiche sia intellettuali. A differenza della maggior parte delle altre donne delle poleis greche, le etere avevano ricevuto o si erano procurate una raffinata educazione ed erano quindi assai colte. Erano delle accompagnatrici non occasionali, oggi diremmo escort, con un termine inglese. Con l’etera l’uomo aveva rapporti anche sessuali, la remunerava e le chiedeva una relazione “gratificante” anche sotto il profilo intellettuale. Le etere, ammesse nei simposi degli uomini, partecipavano anche alle discussioni filosofiche, come faceva Aspasia, che era un’intellettuale.


Un caso diverso da Medea è quello di Fedra, moglie di Teseo, innamorata del figliastro Ippolito che però la respinge.
Fedra cerca di giustificare il suo comportamento e così si rivolge alle donne del coro:
“Donne di Trezene, […] noi sappiamo quel che è bene e ce ne rendiamo conto, ma non ci diamo pena di farlo, gli uni per pigrizia, gli altri perché antepongono alla virtù qualcos’altro: il piacere (ēdonè)…e il ritegno (aidōs) […] Quando l’amore [per Ippolito] mi ferì, cercai di vedere come sopportarlo nel modo migliore. Cominciai allora col silenzio a nascondere la mia malattia. Non ci si può fidare della lingua, che sa sì consigliare gli altri ma da sé si procura una quantità di mali. In un secondo momento mi preoccupai di sopportare dignitosamente la mia follia (ànoian), superandola con la virtù. Infine, poiché non riuscivo con questi mezzi a dominare la passione (Kyprin, Cipride cioè Afrodite, la dea della passione amorosa), la decisione migliore, nessuno lo può negare, mi sembrò quella di morire. Mi sia concesso, se compio azioni nobili, di non restare ignota, né di avere molti testimoni, se faccio il contrario. Avevo coscienza del fatto e dell’infamia della malattia; oltre a questo sapevo bene di essere una donna, esposta al disprezzo di tutti. Sia maledetta colei che per prima cominciò a disonorare il letto nuziale con estranei. Dalle case dei nobili questo male derivò alle donne.[…] Disprezzo quelle donne che sono caste nei discorsi e di nascosto hanno commesso infamie indicibili” (Euripide, Ippolito, vv. 380-414, passim, trad. cit.).
Ha provato in tutti i modi di resistere alla passione d’amore, ma alla fine non le rimane che il suicidio.
Mentre nei due monologhi precedenti Euripide sembra decisamente schierato con le donne, pronto a difenderle e a giustificarle, nella stessa tragedia Ippolito, il protagonista sferra un violento attacco contro le donne, quando la nutrice, mandata da Fedra, è venuta “a proporgli il letto intoccabile di suo padre”, a rivelargli la passione di Fedra per lui, che invece è un giovane casto, seguace di Artemide, la dea della caccia.
“O Zeus, perché hai messo al mondo le donne, male spregevole (o, secondo Eva Cantarella, “ambiguo malanno”, kìbdēlon anthrōpois kakòn) della società? Se volevi creare la razza umana, non dovevi farlo per mezzo delle donne. Gli uomini depositando nei tuoi templi bronzo o argento o oro massiccio potevano comprare semi di bambini, ciascuno secondo il valore dell’offerta e vivere in case libere da femmine. Ecco la prova che la donna è una grande disgrazia (gynē kakòn méga). E il padre che l’ha generata e allevata, con una dote la manda fuori di casa, per allontanare un malanno. Dal canto suo, chi prende in casa quella funesta creatura mette con gioia ai piedi dell’idolo orrendo dei begli ornamenti e con vestiti si affanna, l’infelice, a distruggere il patrimonio domestico….Aborrisco la donna scaltra (oppure “saputa”: sophēn de misō,). Lungi da casa mia la donna che la sa più lunga del dovuto. Cipride genera la malvagità di preferenza nelle donne scaltre. La donna stupida (ē amēchanē gynē) è preservata dalla follia amorosa dal suo cervello corto.[…] Non mi stancherò di odiare le donne … sono loro che continuano ad essere perverse …” (Euripide, Ippolito, trad. cit. , vv. 616-668).
Come dice Ippolito,
– il padre non vede l’ora di cedere la figlia al marito e di liberare la casa da quel malanno;
-il marito, poi, per assecondare i capricci della moglie, sperpera il patrimonio familiare per comprarle vestiti e gioielli.
Ippolito detesta a tal punto il genere femminile da immaginare che, per avere figli, gli uomini dovrebbero comprare il seme dei bambini dai santuari.
Infine, nel suo discorso è presente anche una delle costanti della letteratura misogina dell’antichità, l’odio per la donna sophē (colta, intelligente, ma qui in accezione negativa, “scaltra”, “saputa”).
Per cercare di capire la ragione del contrasto fra i monologhi di Medea e di Fedra e quello di Ippolito, si è detto che non si tratta di punti di vista del poeta, ma di giudizi dei personaggi: nessuno dei testi citati rifletterebbe il pensiero euripideo.
Mentre per alcuni grecisti le tragedie di Euripide documenterebbero un profondo disprezzo dell’autore per le donne (fatta qualche eccezione, ad es. Alcesti), secondo altri invece le azioni infami compiute da molte eroine euripidee rivelerebbero il desiderio del poeta, visto come il portavoce della ribellione delle donne, di denunciare la loro difficile condizione nella sua città, mettendo in discussione la morale tradizionale.
La Cantarella ritiene che sia assai difficile non vedere nella tragedia l’antica misoginia greca e l’idea della subordinazione femminile e, contrariamente a quello che si pensa, non considerare Euripide il poeta tragico che meglio esprime l’avversione per il genere femminile. La violenza dell’invettiva di Ippolito è tale da far supporre una perfetta identificazione di Euripide con il suo personaggio.
Euripide, attraverso le parole di Ippolito, sembra confermare il vecchio luogo comune della donna flagello, genere infame, sventura per chi non riesce a sottrarsi al suo influsso malefico. Per Ippolito, inoltre, la donna deve essere anche stupida, perché solo la stupidità può ridurre i danni che comunque essa procura.
Come spiegare la ribellione di Medea alla sorte riservata alle donne? Euripide, consapevole del dibattito del suo tempo sulla questione femminile, attraverso Medea, che parla a nome di tutte le donne, vuole mostrare la sua apertura al problema, pur restando fermo sulle sue convinzioni.
“Una donna è timorosa in tutto, debole di fronte alla forza …. ma quando si vede tradita nel letto (es eunēn), la sua ferocia non conosce limiti”: il “letto” è la sola forza capace di provocare la reazione delle donne per vendicarsi dell’affronto subìto.
***


La misoginia di Euripide è attaccata da Aristofane nelle Tesmoforiazuse (Le donne alla festa di Demetra), che fa una divertente parodia di Euripide e dei passi principali delle sue tragedie che hanno per protagoniste le donne.
Emarginate dalla vita politica e sociale delle poleis, confinate in casa, le donne potevano recuperare la loro autonomia, per quanto temporanea e fittizia, nelle Tesmofòrie (le Feste in onore di Demetra Tesmòfora, Legislatrice, cioè istitutrice dell’agricoltura, del matrimonio e del vivere civile, e di sua figlia Core/Persefone) o, come abbiamo visto, partecipando ai riti dionisiaci, prevalentemente femminili.
Le Tesmoforie, la festa delle donne per eccellenza, a cui potevano partecipare solo donne di condizione libera e sposate con cittadini ateniesi, erano protette dal segreto religioso.


Con queste feste si celebrava Demetra che, in lutto per la figlia, rapita e portata nell’ Oltretomba dal dio Ade/Plutone come sua sposa, per molto tempo rinunciò a svolgere il suo compito di divinità delle messi e della raccolta dei frutti che la terra produceva.
Si svolgevano prima della semina e duravano tre giorni: il primo giorno le donne, dopo aver vegliato l’intera notte, salivano al santuario di Demetra Tesmofora situato sulla collina della Pnice; il secondo giorno digiunavano per purificarsi, accampate in uno speciale recinto del santuario, lamentando la scomparsa di Persefone; il terzo offrivano a Demetra in sacrificio cereali, vino, olio, formaggi; banchettavano e si scambiavano motti osceni, invocando la Dea affinché garantisse loro una numerosa e sana prole.




Ispirata a questa festa, la commedia di Aristofane è una divertente parodia di Euripide, perseguitato da quelle stesse donne ateniesi tanto spesso bersaglio della sua misoginia.
Questa volta non sono presi di mira i demagoghi, di cui il poeta non condivide la politica; non si tratta di polemizzare e mettere in ridicolo Socrate e i Sofisti, per la sua profonda diffidenza verso tutte le forme della cultura nuova, che gli sembravano minacciare quei valori e quelle istituzioni che avevano dato forza all’Atene arcaica, ma di porre al centro della vicenda un poeta rivale, con cui aveva molto in comune e verso cui nutriva un rapporto di odio-amore.
Nelle Tesmoforiazuse Aristofane immagina che le donne, irritate contro Euripide, abbiano deciso durante la Festa di vendicarsi di lui, uccidendolo, perché in tutte le sue opere parla male di loro (“le sputtana”, secondo altre traduzioni: oti kakōs autas legei), presentandole sotto l’aspetto peggiore, accusandole di tutti i vizi e di tutte le brutture possibili.
Venuto a conoscenza che le donne stanno tramando contro di lui, Euripide manda alle Tesmoforie un suo parente, travestito da donna, per ascoltare quello che dicono le donne e per prendere la parola in sua difesa.
All’inizio della cerimonia la sacerdotessa invita le donne presenti a prendere la parola per decidere la pena a cui condannare Euripide, responsabile di oltraggio nei loro confronti:
Prima donna: “Non è per ambizione – lo giuro sulle dee – che mi sono alzata a parlare, o donne: ma da troppo tempo non riesco a tollerare di vederci infangare da Euripide, il figlio dell’erbivendola e di sentire troppe ingiurie e di ogni genere. Di quali vizi ci insozza costui? E dove non ci calunnia… chiamandoci adultere e pazze per i maschi, e ubriacone e traditrici e linguacciute, e nulla di buono e malanno per i mariti? E così i nostri uomini, appena tornati dal teatro, ci guardano sospettosi e subito vanno a vedere se in casa è nascosto qualche ganzo. Non possiamo più fare nulla di quello che facevamo prima, tante brutte cose ha insegnato costui ai nostri mariti. […] Ed è ancora per colpa sua che i nostri mariti pongono chiavistelli e sigilli alle nostre stanze per custodirci. […] Per questo io sostengo che bisogna ammannirgli una buona morte col veleno o con qualunque altro mezzo, purché crepi.[…]”
Dopo un altro intervento, il parente di Euripide, che travestito da donna si era infiltrato alla festa, dice:
“Che voi, o donne, siate terribilmente adirate contro Euripide, che ha detto di voi queste malvagità, e ribolliate di bile, ciò non mi meraviglia. Infatti io stessa… odio quell’uomo. Dovrei essere pazza a non odiarlo. Tuttavia dobbiamo fare un discorso fra noi: siamo sole e non c’è nessun timore che qualcuna porti fuori le nostre parole. Perché lo accusiamo e siamo così intolleranti verso di lui, solo perché ha svelato due o tre delle nostre magagne, dal momento che lui conosce bene quante ne facciamo? Io stessa, per prima… so di averne parecchie sulla coscienza.[…] Che se poi ingiuria Fedra, a noi che cosa importa?”.
Coro: … Non mi sarei mai immaginata che una donna tanto scellerata osasse parlare così spudoratamente in pubblico.
Prima donna: “Tutto quello che sapevi, lo hai già vomitato…”
Parente: (riprendendo e parodiando molti passi e personaggi femminili delle tragedie di Euripide) “Nemmeno la milionesima parte, di quello che facciamo […] nemmeno che una donna ha accoppato il marito con la scure… e nemmeno che un’altra ha fatto impazzire il marito con dei filtri”.
La donna intervenuta per prima nel dibattito, rivolta sia alle altre donne che partecipano all’assemblea sia agli spettatori, propone di punire il parente, che ha accusato il genere femminile di essere di gran lunga peggiore di come lo rappresenta Euripide nelle sue tragedie, “perché impari per l’avvenire che quando una donna è donna non deve parlar male delle donne”.
Coro (parlando direttamente con il pubblico, formato esclusivamente da uomini): “E noi adesso… vogliamo parlarvi, tessere le nostre lodi: nessuno parla bene del nostro sesso. Noi siamo la rovina degli uomini, da noi deriva ogni affanno: discordie, contese , rivolte terribili, dolori guerra. E allora se siamo un malanno, se davvero siamo una rovina perché ci sposate? Perché ci impedite di uscire e di mettere la testa fuori della finestra; avete paura che ci rubino? Perché avete tanta cura a custodire un simile guaio? […] Fra di voi, potremmo indicarne molti che rubano all’erario [non è cambiato proprio niente in tanti secoli] e inoltre più di noi, servi della gola, tagliaborse, buffoni trafficanti di schiavi… e molti nelle loro guerre, si sono buttati dietro le spalle… il loro ombrello (lo scudo)”.
Ma dopo avere difeso il poeta dagli attacchi delle tesmoforiazuse, il parente viene scoperto e si sarebbe messa davvero male per lui, se non fosse intervenuto a salvarlo Euripide, prima travestito da Perseo che libera Andromeda e poi senza alcun travestimento, promettendo alle donne che non avrebbe mai più parlato male di loro: “Donne, se voi volete per il futuro far pace con me, questa è l’occasione, dal momento che io vi annuncio solennemente che voi non udirete mai più per bocca mia alcun male per l’avvenire…” (Aristofane, Tesmoforiazuse, vv. 383 e segg., passim, trad, di Francesco Ballotto).
Tenendo presente che la commedia si rappresentava nel teatro di Dioniso, durante le feste in onore del dio, le Grandi Dionisie, le donne invocano tra gli altri Dei anche Bacco e si abbandonano ad una danza orgiastica, che richiama quella delle menadi.
“Diamoci dunque all’allegria, com’è costume di noi donne quando nelle ore sacre celebriamo gli augusti misteri delle due dee [Demetra e Core]… Avanti con piede leggero, giriamo in tondo, e tenendoci per mano… ciascuna segua il ritmo della danza. Muovi agili i piedi!… e ciascuna celebri e canti la stirpe degli Dei olimpici, presa dall’ebbrezza della danza [e si celebra Apollo, Artemide, Era, Ermes]. Muovi ora con foga il passo doppio [Da questo momento, invocato Bacco, la danza diventa orgiastica]. Folleggiamo, o donne; secondo il costume, siamo dell tutto digiune [è il secondo giorno della festa]…. E guidaci tu stesso, o Bacco, signore ornato di edera. Io ti celebrerò con danze e canti. Evoè, Dioniso, figlio di Zeus e di Sèmele, che godi delle danze sui monti e degli amabili inni delle Ninfe, evoè, evoè tutta la notte danzando. Echeggia, intorno a te, l’eco del Citerone, e i monti ombrosi coperti di selve e le valli pietrose fremono…” (vv. 946-1000, trad. cit.)
È lo stesso clima, lo stesso spirito delle Baccanti di Euripide, lo stesso bisogno di evasione, di libertà, prima dello sparagmòs, prima che la follia invada l’animo delle menadi, a cominciare da Agave, madre del re Penteo.
Attraverso la parodia, Aristofane conferma il giudizio negativo che Euripide, legato ai valori tradizionali, ha sulle donne, riprendendone tutte le accuse, in una visione maschilista della società ateniese.

